Verso il mid-term

Riprendo dal bravo David Hopkins (http://www.honestgraft.com/).

Dal 1980 a oggi i Repubblicani hanno conquistato la Presidenza 6 volte e i Democratici 5. I Rep hanno ottenuto la maggioranza alla Camera 10 volte e i Democreatici 11. Dati invertiti al Senato, 11 volte la maggioranza ai Rep e 10 ai Dem (sarebbe 10.5, che ci fu la vicenda famosa del cambio di campo di Jeffords nel maggio 2001, ma lasciamo perdere). Una sorta di perfetta parità/alternanza, insomma.

Il dato più utile del rapido storico di Hopkins è però un altro: ovvero che in meno del 15% del tempo complessivo di queste Presidenze/Legislature abbiamo avuto un governo unitario, in cui lo stesso partito controllava la Presidenza e le due Camere: Democratico dopo il 1992, il 2008 e oggi; i Repubblicano dopo il 2002, il 2004 e il 2016 (e qualche mese dopo il 2000). In tutti i casi si tratta di bienni successivi all’elezione di un nuovo Presidente, eccetto per il 2002-4, quando però pesò tantissimo lo “stato d’eccezione” successivo all’11 settembre e la “war on terror”.

Per farla breve, il governo unitario è una situazione fattasi estremamente rara e quasi sempre il partito di un Presidente neo-eletto paga un dazio pesantissimo al primo mid-term. La media post-Seconda Guerra Mondiale, leggevo ieri sulla solita sfilza di citazioni e dati di Edsall ,(https://www.nytimes.com/2021/11/17/opinion/democrats-midterms-biden.html) è che il partito all’opposizione guadagna al mid-term 27 seggi. Una media che però pare essere cresciuta, soprattutto nel mid-term successivo all’elezione di un nuovo Presidente: i Dem persero 52 seggi nel 94 e addirittura 63 con Obama nel 2010; i Rep ne persero 40 nel 2018 (https://www.presidency.ucsb.edu/statistics/data/seats-congress-gainedlost-the-presidents-party-mid-term-elections).

Tante spiegazioni sono state offerte e sul tema delle mid-term losses vi è una ricca letteratura, a partire dal famoso saggio di Erikson dell’88 (https://www.jstor.org/stable/2131389?seq=1#metadata_info_tab_contents) che anche Edsall ricorda.

Il dato rilevante, e ovviamente molto preoccupante per i Democratici, è appunto una serialità spiegata da vari fattori a cui si aggiunge oggi lo scarto macroscopico tra promesse, aspettative e possibilità: tra una politica che risponde alla propria delegittimazione (e, anche, alla propria debolezza) promettendo ancora di più e quindi ampliando lo scarto tra retorica e risultati, parole e fatti. Obama nel biennio 2009-10 fece non poco, da uno stimulus che – con tutti i suoi limiti – era il più ampio nella storia del paese (e permise di tirare gli Usa fuori dalle secche della crisi) a una riforma sanitaria epocale (di nuovo, con tutti i suoi limiti) e oggi decisamente popolare e apprezzata (https://www.kff.org/interactive/kff-health-tracking-poll-the-publics-views-on-the-aca/#?response=Favorable–Unfavorable&aRange=twoYear) a tanti altri provvedimenti e ordini esecutivi rapidamente dimenticati (a partire dal Lilly Ledbetter Fair Pay Act contro le discriminazoni salariali sulla base del genere). Ma nel 2010 il suo partito subì la sconfitta più pesante al mid-term degli ultimi 80 anni.

Due elementi aggiuntivi, anche questi a svantaggio dei democratici, vanno sottolineati. Il primo riguarda un sistema elettorale che favorisce chiaramente una minoranza di Stati ed elettori, sovrarappresentati tanto al Senato quanto nel voto presidenziale. Tanto per intenderci – e con l’eccezione del 2004, spiegabile appunto con lo specifico contesto del post-11 settembre – è dal 1988 che i Repubblicani non vincono il voto popolare alle Presidenziali. L’attuale Senato è diviso 50-50, come ben sappiamo, ma i 50 Democratici rappresentano una popolazione di 41.5milioni in più rispetto ai Repubblicani (con uno scarto di circa 13 punti percentuali). Il secondo elemento è che anche alla Camera i democratici partono sempre più ad handicap. Perché la distribuzione del loro elettorato – grandemente sovrarappresentato in aree metropolitane – lo rende meno efficiente ; perché le tante – e in taluni casi grottesce – “riforme elettorali” adottate da molti stati repubblicani negli ultimi mesi mirano a rendere più difficile la partecipazione di elettori che tendenzialmente votano democratico (https://www.ncsl.org/research/elections-and-campaigns/2021-election-enactments.aspx); perché il dominio dei repubblicani nelle assemblee legislative statali ha loro permesso di gestire spesso il processo di “redistricting”, di ridisegno dei collegi elettorali assegnati a ogni Stato in conseguenza del censimento decennale, con pratiche di gerrymandering che definire spregiudicate o, meglio, piratesche è poco. Pratiche adottate anche dai Democratici, ci mancherebbe (tutta da vedere, ad esempio, è la mappa elettorale dell’Illinois https://gerrymander.princeton.edu/reforms/IL) , ma molto meno della controparte (anche perché meno sono le possibilità…). Dall’Ohio (https://projects.fivethirtyeight.com/redistricting-2022-maps/ohio/) al Texas (https://projects.fivethirtyeight.com/redistricting-2022-maps/texas/), il redistricting riduce drasticamente l’effettiva competizione elettorale e dà ai repubblicani un ulteriore vantaggio. Finendo per alimentare quindi una sorta di “minority rule” anche alla Camera, dove lo scarto percentuale di voti a vantaggio dei Democratici non si traduce in un uguale scarto di seggi.

Se poi i democratici litigano, si dividono e non riescono a votare provvedimenti popolari come i congedi di maternità/paternità, allora le chances di preservare una maggioranza al Congresso si riducono ancor di più e forse l’unica vera speranza sono ulteriori mattane trumpiane come quelle, successive al voto presidenziali, che permisero ai Dems di vincere in Georgia e avere questo esile controllo del Senato.

Se poi i democratici litigano, si dividono e non riescono a votare provvedimenti popolari come i congedi di maternità/paternità, allora le chances di preservare una maggioranza al Congresso si riducono ancor di più e forse l’unica speranza sono ulteriori mattane trumpiane come quelle, successive al voto presidenziali, che permisero ai Dems di vincere in Georgia e avere questo esile controllo del Senato.

Di Mario Del Pero

Professore di Storia Internazionale e di Storia degli Stati Uniti all'Institut d'études politiques - SciencesPo di Parigi

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