Come da copione, fioccano da più parti le citazioni/invocazioni di Henry Kissinger, il master realpolitiker che con la sua lucida saggezza ci offre la bussola con cui orientarci nelle tenebre di un sistema internazionale pericoloso, potenzialmente caotico, ma in ultimo intelligibile e controllabile.
Peccato che nei suoi 70 anni di vita pubblica lo stesso Kissinger abbia oscillato non poco, preda delle voghe intellettuali e, anche, del desiderio di compiacere il principe di turno più che di consigliarlo e, se necessario, contestarlo. Il Kissinger da cui dovremmo imparare è anche colui che teorizzava guerre nucleari limitate quando, appunto, andava di moda farlo; e che – più saviamente – abbracciava MAD e “interdipendenza per la sopravvivenza” (interdependence for survival) – quando si dovevano giustificare, e vendere all’opinione pubblica americana, gli accordi con l’URSS, soprattutto il trattato ABM. Che faceva propria la bufala del missile gap a favore dei sovietici e preconizzava il tracollo inevitabile dell’Occidente. Che invocava la lezione di Monaco per giustificare l’intervento in Vietnam e poi la credibilità degli Usa per continuare una guerra che ammetteva non avere più senso né possibilità di vittoria (e per cercare un “decente intervallo” tra l’uscita degli Usa e l’inevitabile caduta di Saigon). Che per accreditarsi con i neocon o la nuova destra reaganiana, faceva rapida marcia indietro e criticava (senza dirlo) gli accordi che lui stesso aveva negoziato. Che celebrava la solidità strutturale della Guerra Fredda quando stava per implodere. O che – ripetendo pari pari gli assiomi del Vietnam – sosteneva la necessità di rimanere in Iraq non perché vi fossero concrete di possibilità di vittoria, ma perché era in gioco, di nuovo, la credibilità statunitense (gli Usa, con una contorsione concettuale di non poco conto, avevano “creato” un interresse intervenendo, sostenne).
Intendiamoco, HAK è figura complessa e per certi aspetti tragica. Ma è figura tutta politica (e l’ultima bella biografia di Tom Schwartz lo mostra bene). E lì risiede forse il suo vero successo e la sua grande abilita: aver messo la sua prosa – non di rado opaca e oracolare – al servizio dell’immagine del savio onniscente e no-nonsense, amorale ma non immorale perché quello la politica internazionale richiede. E anche i suoi tanti critici sono spesso caduti nella trappola, denunciandole cinismo e inclinazioni finanche criminali (accuse che, come ha fatto chiaro, non gli sono affatto dispiaciute), più che la levità e l’incoerenza intellettuale