La guerra in Ucraina si prolunga. E con essa cresce inevitabilmente la brutalità del conflitto e il coinvolgimento di civili, vittime collaterali delle operazioni militari od obiettivi diretti di una strategia, che la Russia ha già testato altrove, atta ad alzare inesorabilmente il prezzo della resistenza fino a renderlo non più sopportabile. Dentro questa escalation, i compromessi risultano sempre più difficili: maggiori sono i costi e i sacrifici compiuti, minore diventa la disponibilità ad accettare accordi che comportino delle concessioni alla controparte.
In parallelo, rimane altissima la possibilità che una spirale viziosa d’insicurezza renda impossibile circoscrivere e limitare la guerra; che all’escalation interna non ne segua una internazionale. Per certi aspetti la Russia e la NATO sono oggi già in guerra. La decisione di trasferire sofisticati armamenti all’Ucraina e le misure economiche estreme adottate per sanzionare e punire Mosca – a partire dallo straordinario congelamento di quasi metà delle sue riserve in oro e valuta – sono per molti aspetti atti di guerra. Per quanto vi sia una soglia oltre la quale i paesi NATO, e gli Usa in particolare, non vogliono né possono andare, il loro coinvolgimento aumenta all’intensificarsi e prolungarsi del conflitto. E con esso aumenta il rischio di collisioni dirette, errori, fraintendimenti. Non serve scendere negli abissi apocalittici di una guerra nucleare – peraltro paventata come mai in Europa dagli anni Cinquanta a oggi – per immaginare una pericolosissima escalation convenzionale che internazionalizzi ancor di più il conflitto.
Le guerre sono quasi sempre spartiacque che trasformano l’ordine regionale o mondiale. Quella di Putin è chiaramente una sfida revisionista all’architettura di sicurezza NATO-centrica (e americano-centrica) costruita dopo il 1991 in Europa. Architettura parziale, incoerente e oggi obsoleta in numerosi suoi pezzi. Che deve essere in altre parole re-immaginata e rifondata. Perché la trasformazione che una guerra provoca si concreta poi nei progetti elaborati durante questa guerra e nell’intensa attività diplomatica che sempre accompagna l’incedere degli eventi militari.
Nel caso specifico, abbiamo visto diversi attori cercare di occupare il centro dell’azione diplomatica: la Francia di Macron; la Turchia di Erdogan; l’Israele di Bennett; con infinita cautela e grande gradualità la stessa Cina di Xi Jinping. Si tratta d’iniziative, e di protagonismi, che hanno matrici diverse, nelle quali – si consideri il prossimo voto presidenziale francese – non sono estranee considerazioni elettorali e di politica interna o, si pensi alla preoccupazione israeliana verso possibili aperture all’Iran e al suo petrolio, a specifiche dinamiche regionali. A monte sembrano però agire un comune obiettivo e una preoccupazione diffusa e condivisa: evitare, appunto, che la spirale dell’insicurezza vada fuori controllo e che il conflitto esca in qualche modo dai confini ucraini.
Ciò potrebbe avere un impatto devastante su un sistema, a volte tendiamo a dimenticarlo, altamente integrato e non così elastico da poter assorbire facilmente, o pacificamente, una destabilizzazione simile. Della stabilità e, appunto, crescente integrazione la Cina ha largamente beneficiato e continua a beneficiare. Gli effetti di un’internazionalizzazione della crisi non sarebbero in nessun modo circoscrivili, come ben mostrano le conseguenze della prima ondata di sanzioni contro la Russia. Che ha colpito, ad esempio, lo stesso mercato borsistico di Shanghai e minaccia di avere un impatto assai forte su un’economia ancora export-led come quella cinese. A dispetto delle fantasie su possibili futuri assi economici sino-russi, è con gli Usa e con l’Europa che Pechino ha i volumi maggiori di scambi commerciali o le più profonde interdipendenze finanziarie. Tutti insomma guardano con preoccupazione a quanto sta avvenendo e cercano d’immaginare una via d’uscita che appare ogni minuto più impervia.
Il Giornale di Brescia, 14 marzo 2022