Il nesso nazionale-internazionale e la crisi italiana

È frequente l’abitudine di leggere e spiegare le crisi politiche italiane con le dinamiche internazionali. E, in alcune torsioni estreme ma non infrequenti, di credere che siano attori esterni a pilotare queste crisi o quantomeno ad esasperarle. Non fa eccezione quest’ultima che ha portato alla caduta del governo Draghi, con commentatori che v’intravedono la lunga mano delle ingerenze russe ovvero le eccessive pressioni di alleati europei e d’oltre atlantico che avrebbero aggiunto ulteriore tensione a un governo di suo sempre più precario. Se usciamo però da cospirazioni e grossolane dietrologie, non possiamo non riconoscere che nella storia, recente e meno, della Repubblica italiana il nesso nazionale/internazionale abbia giocato spesso un ruolo centrale. Perché i processi d’integrazione europea e globale dell’età contemporanea hanno in parte eroso la sovranità nazionale e inserito l’Italia, come il resto del mondo, dentro un inestricabile reticolo d’interdipendenze. E perché anche il nostro paese fa parte di un sistema di alleanze e di strutture sovranazionali definite e altamente istituzionalizzate che nell’ultimo biennio hanno peraltro acquisito una nuova rilevanza e centralità.

A prima vista, anche in questa crisi a essere dirimenti sono stati in realtà fattori interni: l’inevitabile logorio di un composito governo di unità nazionale; il posizionarsi delle diverse forze politiche di fronte a una scadenza elettorale ormai prossima; opportunismi e paure alimentati da recenti voti amministrativi. E però il tutto è appunto avvenuto dentro un preciso contesto internazionale, segnato da guerre, pandemie, catene transnazionali di produzione e distribuzione pesantemente ingolfate, dinamiche inflattive che non conoscono barriere e confini. Tre, in particolare, sono gli ambiti dove visibile e forte è stato – ed è destinato a rimanere – questo nesso nazionale/internazionale.

Il primo è ovviamente quello dell’allineamento atlantico ed europeo prodotto dal conflitto in Ucraina. Il governo Draghi si è schierato senza ambiguità al fianco degli alleati. Difficile pensare potesse fare altrimenti, anche perché l’Italia non dispone del peso e dei margini di manovra della Francia, anch’essa peraltro costretta ad abbandonare rapidamente le sue velleità mediatrici. E però l’Ucraina ha esposto le fragilità di una coalizione di governo dove alcune forze politiche, Lega e Forza Italia su tutte, hanno rapporti speciali di lungo corso con Mosca, dove continuano a esistere posizioni fortemente antistatunitensi e finanche eurofobiche (in particolare nella Lega e tra i 5Stelle), e dove una parte non irrilevante dell’opinione pubblica non sostiene la linea del sostegno, economico e militare, a Kiev. Ad alcuni partiti – di nuovo Lega e soprattutto 5Stelle – questa partecipazione al governo Draghi è costata una pesante emorragia di consensi. Far cadere il governo e avere mani più libere nel criticare la politica estera europeista e filoatlantica offre una carta per cercare di arrestare questa emorragia.

Il secondo ambito è proprio quello europeo. La storia scorre veloce e accelerata, e talora si dimentica come solo pochi anni fa – nella fase del governo gialloverde del 2018-19 – l’Italia assunse una linea fortemente critica nei confronti dell’Unione Europea, che cavalcava una insoddisfazione più ampia e transnazionale nei confronti di Bruxelles. La risposta, incisiva e non scontata, della UE all’emergenza pandemica ha conferito popolarità e in una certa misura nuova legittimità all’Unione, che però si trova ora a fronteggiare sfide complesse con strumenti in parte spuntati o, si pensi a inflazione e tassi d’interesse, destinati a generare nuovi malcontenti e critiche.

E questo ci porta al terzo e ultimo ambito. Quello che in una certa misura evidenzia anche un paradosso, e una fragilità d’origine, del governo Draghi. Governo emergenziale e di unità nazionale, presieduto da una figura tecnica. Ma governo nato anche come risposta a difficoltà, e contestazioni, che la democrazia italiane condivide con quelle di tanti altri paesi del mondo più ricco. Come modo per ridare credibilità e forza alla nostra democrazia. Che esce invece da questa crisi ancor più indebolita. Con il rischio che disaffezione e disillusione allontanino ancor più i cittadini dalla politica o, come in altre parti d’Europa o negli Usa, li rendano ancor più sensibili alle sirene di demagoghi autoritari di cui anche il nostro paese non sembra fare difetto.

Il Giornale di Brescia, 22 luglio 2022

Di Mario Del Pero

Professore di Storia Internazionale e di Storia degli Stati Uniti all'Institut d'études politiques - SciencesPo di Parigi

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