Nancy Pelosi a Taiwan

È una visita azzardata e in una certa misura provocatoria, quella a Taiwan della delegazione congressuale statunitense guidata dalla terza carica del paese, la Speaker della Camera Nancy Pelosi. Una visita che a quanto sappiamo Biden, i militari e il Dipartimento di Stato avrebbero voluto evitare. Ma che è facilmente spiegabile in termini istituzionali, elettorali, ideologici e, anche, strategici, che concorrono tutti a determinare il clima politico nel quale si colloca oggi la relazione (e la competizione) tra Cina e Usa.

Da un punto di vista istituzionale, si assiste all’ennesimo tentativo del Congresso di riaffermare le proprie prerogative e funzioni in materia di politica estera e di sicurezza. Prerogative e funzioni, queste, costituzionalmente definite, che il Congresso accettò a lungo di delegare alla Presidenza, ma di cui da mezzo secolo a questa parte cerca di riappropriarsi in una dialettica istituzionale non di rado tesa e conflittuale.

Il dato politico ed elettorale è a sua volta ovvio e finanche trasparente a pochi mesi dalle elezioni di mid-term dove si voterà per l’intera Camera dei Rappresentanti e 35 senatori (su 100). L’ostilità alla Cina e l’idea che la profonda interdipendenza economica sino-statunitense sia una gabbia dalla quale affrancarsi costituiscono oggi denominatori bipartisan che raccolgono il sostegno di ampie maggioranze repubblicane e democratiche. Secondo i sondaggi Gallup, l’80% degli americani ha un’opinione negativa della Cina, la percentuale di gran lunga più alta da quando, nel 1979, iniziò questa rilevazione (solo dieci anni fa era il 40%). Tutto ciò si traduce elettoralmente in una sorta di competizione anticinese, con i falchi repubblicani che enfatizzano la dimensione della competizione di potenza e i liberal democratici l’autoritarismo cinese e le violazioni dei diritti umani. Temi, questi ultimi, sui quali la Pelosi ha una lunga storia d’impegno personale nella denuncia di Pechino e delle sue pratiche repressive.

E questo ci porta al dato ideologico. Biden potrà anche avere espresso delle perplessità rispetto all’iniziativa della Speaker della Camera, ma essa è in una certa misura coerente con il tipo di retorica che questa amministrazione utilizza costantemente: con un discorso di politica estera molto binario e centrato sulla costante partizione tra autoritarismo e democrazia, dispotismo e libertà. Nel quale il tema dei diritti umani è spesso tornato a essere centrale, con tutti i corto-circuiti e i doppi standard che abbiamo imparato a conoscere.

La strategia, infine. Quella della Pelosi è la più importante visita a Taiwan di una figura politica statunitense da almeno un quarto di secolo a questa parte (nel 1997 il suo omologo repubblicano Newt Gingrich visitò l’isola). Nei frenetici colloqui di questi giorni con Pechino, i funzionari statunitensi hanno a più riprese sottolineato come la visita non cambi nulla nella politica degli Usa verso Taiwan. E però, talora sottotraccia talora esplicitamente, quella politica ha subito un mutamento graduale, contestuale al deterioramento delle relazioni tra Washington e Pechino. L’“ambiguità strategica” statunitense rispetto alla risposta a un’eventuale aggressione cinese di Taiwan ha lasciato il posto a un crescente impegno degli Stati Uniti nel sostenere l’isola. Impegno legato al convincimento che Taiwan possa svolgere un ruolo fondamentale nel contenimento dell’ambizioni espansionistiche della Cina nella regione. Anche in questo caso, insomma, la decisione della Pelosi sembra coerente con la linea dell’amministrazione Biden (e, prima ancora, con quella di Trump, il cui ultimo Segretario di Stato Mike Pompeo ha pubblicamente elogiato la Speaker).

E però di evitabile provocazione si tratta, in un momento in cui altre sono le priorità dell’azione internazionale degli Usa e, a dispetto di tutto, fondamentale rimane il dialogo con Pechino, come lo stesso conflitto in Ucraina ci ha peraltro ricordato.

Il Giornale di Brescia, 3 agosto 2022

Di Mario Del Pero

Professore di Storia Internazionale e di Storia degli Stati Uniti all'Institut d'études politiques - SciencesPo di Parigi

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