C’è molto, moltissimo che ancora non sappiamo rispetto alla decisione dell’FBI di perquisire l’abitazione dell’ex Presidente Donald Trump a Mar-a-Lago in Florida. Ignoti sono per il momento i motivi che hanno indotto un giudice federale e, presumibilmente, i vertici del Dipartimento della Giustizia ad autorizzare l’azione. E ignoti sono quindi i crimini potenziali sui quali s’indaga. Su questi, così come sugli sviluppi dell’inchiesta, si possono avanzare solamente delle ipotesi e lo si deve fare con mille cautele.
E però vi sono anche delle cose che sappiamo: delle certezze, politiche e giudiziarie, che aiutano quanto meno a definire il contesto entro cui collocare questo nuovo colpo di scena. La prima certezza è che in passato Trump ha trattenuto una serie di documenti relativi alla sua Presidenza che a norma di legge costituiscono invece proprietà pubblica da custodirsi negli archivi nazionali (NARA). Già il febbraio di scorso, Trump era stato obbligato a restituire ai NARA una quindicina di scatole contenenti materiali che non potevano restare in suo possesso, inclusi documenti sensibili con un livello di classificazione “secret” e “top secret”. Quello dell’ex Presidente è, ai termini di legge, un reato ovviamente perseguibile, anche se in assenza di precedenti non è chiaro se un’eventuale condanna sarebbe sufficiente ad inibirne in futuro la candidatura a cariche elettive.
La seconda certezza è che Trump sia oggi oggetto di molteplici indagini per possibili reati, civili e penali. Indagini, queste, alle quali si aggiunge quella in corso della commissione congressuale d’inchiesta sull’assalto al Congresso del 6 gennaio 2021. È assai probabile che nella relazione conclusiva la commissione chiederà al dipartimento della Giustizia d’incriminare l’ex Presidente per una serie di reati che vanno dall’incitamento all’insurrezione alla inadempienza dei propri doveri (dereliction of duty) alla ostruzione dei procedimenti del Congresso. Le pressioni sul Ministro della Giustizia Merrick Garland sono in realtà già forti e non è da escludere che il raid a Mar-a-Lago possa essere legato a questo filone d’inchiesta. Nei due mesi e mezzo tra il voto del novembre 2020 e l’insediamento di Biden, Trump continuò a espletare le sue funzioni presidenziali e, visto il precedente, è possibile non abbia consegnato ai NARA documenti nei quali, da Presidente ancora in carica, coordinava quel disegno eversivo con il quale cercò in vari modi di rovesciare l’esito del voto.
La terza certezza è invece tutta politica. Nel contesto polarizzato degli Stati Uniti attuali, la tentazione di usare la leva giudiziaria come strumento politico è ovviamente molto forte. Garland si è finora mosso con estrema cautela e, secondo i suoi critici a sinistra, non poca timidezza. Lo ha fatto nella consapevolezza che inchieste non sufficientemente solide – come fu per certi aspetti per quella sulle presunte collusioni nel 2016 tra Trump e il Cremlino – avrebbero screditato la parte inquirente, ossia il dipartimento della Giustizia, e rafforzato politicamente l’ex Presidente e il suo partito. E lo ha fatto perché l’assenza di precedenti porta queste indagini su un terreno davvero ignoto, come evidenziato dai diversi pareri dei costituzionalisti rispetto alla possibilità per Trump di ricandidarsi alla Presidenza in caso di condanna. La reazione compatta e ferma del fronte repubblicano a difesa dell’ex Presidente ci mostra però che queste cautele sono servite a poco. E che la perquisizione abbia a sua volta finito per alimentare una narrazione, demagogica ma popolare, nella quale l’FBI e il dipartimento della Giustizia altro non sarebbero che gli strumenti di uno “stato profondo”, opaco e non democratico, al servizio di quelle élites liberal e globaliste contro le quali si è battuto e si batte Donald Trump.
Il Giornale di Brescia, 11 agosto 2020