Le armi nucleari sono caratterizzate da un groviglio di paradossi che studiosi e politici hanno invano cercato di sbrogliare. Provando – soprattutto negli anni Quaranta e Cinquanta – a definirne un possibile uso limitato in conflitti circoscritti. Costruendo una modellistica con cui immaginare tappe e modalità di un’escalation. Confrontandosi con la fragilità di una politica alle prese con uno strumento militare talmente potente da sfuggire al suo controllo e alla sua guida. Abbandonando progressivamente l’illusione di poter davvero volare nel cuculo della guerra atomica, per riflettere invece sull’effetto stabilizzatore che queste armi possono avere grazie a un meccanismo – quello della deterrenza – capace di prevenire conflitti i cui costi sarebbero in ultimo insopportabili per tutte le parti in causa. Di pari passo sono stati realizzati sforzi significativi per limitare la proliferazione nucleare. E, sostengono alcuni studiosi, in gran parte del mondo è stato nel tempo interiorizzato un tabù contro il possibile uso di queste armi, a cui avrebbero contribuito sia la maturazione di una piena consapevolezza della loro totale capacità distruttiva sia una sensibilità antinuclearista stimolata anche da nuove forme di pacifismo ed ecologismo.
La guerra in Ucraina sta mettendo in discussione convincimenti tanto radicati quanto spesso compiaciuti, ponendo interrogativi nuovi e per molti aspetti spaventevoli. Di possibile uso di armi nucleari si parla come non avveniva da decenni. E se ne parla ormai quotidianamente su media dove specialisti un tempo confinati in pubblicazioni di nicchia trovano una tribuna che mai avrebbero sognato di avere. Se ne parla perché nella sua dimensione brutalmente convenzionale – nella sua natura di protratto scontro di attrito e logoramento – questa guerra così novecentesca rimanda a precedenti dove solo la capitolazione di una parte è contemplabile e dove tutti gli strumenti sono leciti per produrla. Se ne parla perché è una guerra che coinvolge una delle due grandi superpotenze di un ordine, quello nucleare appunto, che rimane ancora bipolare in termini di distribuzione complessiva delle capacità. E se ne parla, soprattutto, perché in parallelo con le difficoltà che sta trovando sul terreno, questa superpotenza minaccia sempre più esplicitamente di ricorrervi.
Possiamo pertanto dire che a livello strettamente discorsivo – nella retorica – il tabù è ormai pienamente violato. Il tappo è insomma saltato e non sarà semplice rimettere il genio nella bottiglia: ricreare le condizioni che avevano permesso negoziati, accordi, moratorie e un diffuso consenso sull’obiettivo ultimo di ridurre armi e rischio, fino ad approssimarli allo zero (a quel mondo “libero dalle armi nucleari” a favore del quale, quindici anni fa, si pronunciò pure Henri Kissinger in un famoso intervento sul Wall Street Journal).
Tra la retorica e l’azione esiste, grazie al cielo, ancora una certa distanza. Esperti seri minimizzano il rischio o lo ritengono ancora molto futuribile. Le opzioni sul tavolo della Russia sono problematiche anche rispetto al ritorno che esse dovrebbero garantire. Un’azione solo dimostrativa, ad esempio con un’esplosione nel Mar Nero, rivelerebbe debolezza più che forza, impotenza più che capacità di rovesciare l’esito del conflitto. Un uso, più o meno limitato, su obiettivi militari o addirittura civili (come una città) isolerebbe in modo quasi totale e definitivo Mosca e la esporrebbe a una rappresaglia atlantica che, anche se solo convenzionale, avrebbe effetti devastanti.
E però non si possono sottovalutare la svolta in atto e il pericolo che ne consegue. Perché l’escalation verbale modifica il contesto, contribuendo a delegittimare ed erodere le norme tanto implicite quanto codificate che hanno disciplinato le relazioni internazionali rispetto alle armi nucleari. Perché la storia ci insegna che tutto ciò può avere delle conseguenze, magari non immediate ma destinate prima a poi a manifestarsi. Perché in una guerra, a maggior ragione in un conflitto che le parti coinvolte considerano vieppiù “esistenziale”, si tende a usare tutto ciò di cui si dispone pur di evitare una capitolazione. Perché, infine, nelle nebbie di un conflitto militare – nella sua inevitabile opacità morale, operativa e finanche strategica – non sempre ragionevolezza e umanità riescono a prevalere.
Il Giornale di Brescia, 7 ottobre 2022