Qualche ulteriore riflessione sul midterm

I democratici mantengono il controllo del Senato senza dover attendere il ballottaggio in Georgia. Hanno una tenue (molto tenue) possibilità di preservare la loro maggioranza alla Camera, anche se probabilmente finirà con uno stringatissimo 219-216/218-217 a vantaggio dei repubblicani. Diversamente dal 2020, dove andarono decisamente male, ottengono numerose vittorie nei voti statali: per i Congressi, per i Governatorati, nei referendum, per i Segretari di Stato (tutti quelli sostenuti da Trump, negazionisti del voto del 2020, risultano sconfitti). Tanto per intenderci le trifecta democratiche – i governi unitari statali in cui lo stesso partito controlla governatorato e camere – passano da 14 a 18, il numero più alto dal 1993 (tra queste vi è il cruciale Michigan, dove l’ultima trifecta democratica vi fu, se non sbaglio, nel 1982). Si tratta del miglior midterm per il partito del Presidente dal 2002 (in cui il risultato dei repubblicani fu però pesantemente drogato dall’11 settembre). Nel caso dei democratici, a seconda dei parametri che si usano, il migliore da Clinton 98 o – dato più significativo, credo – da Kennedy 62 o Roosevelt 34, che di un midterm successivo all’insediamento di un nuovo Presidente parliamo.

Come ciò sia stato possibile – con l’inflazione galoppante, la forte impopolarità di Biden e il bassissimo tasso di fiducia dei consumatori – è domanda sulla quale si concentreranno analisi e studi nei mesi e negli anni a venire. A uscirne malissimo, una volta di più, sono sondaggi e sondaggisti (se il vostro margine di errore è +/-  7/8% allora fate un lavoro del tutto inutile, come mi capitò di dire due anni fa a uno dei nostri più noti, suscitandone le ire).

Le prime spiegazioni si soffermano su tre aspetti, strettamente interdipendenti. Il primo è il peso forte di tematiche – aborto e difesa della democrazia – sui quali i dem hanno costruito la loro campagna. No – per quanto faccia spesso sembrare intelligenti e furbi dirlo – “it’s not the economy, stupid” (e non lo fu per nulla neanche con l’elezione di Trump nel 2016, per citare un altro mito, tanto inscalfibile quanto infondato). A maggior ragione in tempi di polarizzazione e di bassissima mobilità elettorale. La seconda è proprio la polarizzazione, che riducendo la volatilità elettorale, offre una sorta di firewall anche a chi è impopolare (come Biden), che in ultimo si vota più contro (qualcuno e qualcosa) che a favore, più per paura/avversione che per entusiasmo. Terzo e ultimo: i candidati. Se dalle primarie repubblicane, nelle quali Trump ha esercitato un peso rilevante, vengono fuori candidati come Mastriano e Walker per cariche di grande importanza (governatore Pennsylvania e senatore Georgia) possiamo solo immaginare che tipo di candidati siano stati scelti per i seggi di deputati e senatori statali, che vengono peraltro eletti con poche migliaia di voti (tanto per intenderci, il Maine – popolazione 1milione e 360mila – ha 35 senatori e 151 rappresentanti, uno per 9mila abitanti …)

Premesso tutto ciò, disponiamo dei primi exit poll per cercare di esaminare questo voto. Exit poll, si sa, da maneggiare con estrema cautela. Tutti ricordiamo la significativa correzione che Pew fece degli exit poll del 2016 due anni più tardi attraverso l’utilizzo di un campione di soli votanti certificati. Fatta questa banale premessa cautelare, che considerazioni (provvisorie) e che ipotesi si possono offrire comparando i dati degli exit poll dell’ultimo midterm con il voto del 2020 e il midterm del 2018? In ordine:

  1. La cosa che balza all’occhio è la sostanziale fissità dei macro-dati che ci troviamo di fronte. Si tratti del voto femminile che va in larga maggioranza ai democratici (anche se i punti di differenza sono stati quest’anno solo 8 contro i 19 del 2018) o delle partizioni di reddito – quelli annui sotto i 50mila, e ancor più i 30, vanno nettamente ai dems, quelli sopra ai repubblicani, in particolare nei redditi tra i 50 e 100k e sopra i 200k – le variazioni sono decisamente limitate e di molto inferiori rispetto al passato. E questo ci conferma, caso mai ne avessimo bisogno, quanto polarizzato e quindi statico sia l’elettorato dei due campi
  2. Aborto e democrazia hanno pesato, si diceva, molto più del previsto. Il primo è stato, in termini percentuali, quasi importante quanto l’economia e, per gli elettori democratici, decisamente più importante (ha quindi agito da fattore mobilitante dell’elettorato che in un midterm a minor partecipazione rispetto alle presidenziali e in un contesto polarizzato è fattore davvero decisivo). Molti hanno immaginato che ciò abbia determinato una forte mobilitazione dell’elettorato giovane e femminile. I dati di cui disponiamo sembrano smentirlo. La grande mobilitazione dell’elettorato giovane – under 25 o under 30 – non vi è stata neanche stavolta. In termini di partecipazione siamo sui livelli del 2018 (gli under 30 furono allora il 13% dell’elettorato e il 12 quest’anno) e ben sotto il 17% del 2020 (i giovani alle presidenziali votano di più). E anche come divisione del voto giovane – più o meno 2 a 1 a favore dei dems – non vi sono stati grandi cambiamenti. Il voto femminile, in particolare quello “bianco”, non cresce in termini percentuali né va più ai democratici, anzi: quel grande cambiamento del 2018, quando il voto femminile bianco si divise a metà tra i due campi, non è stato confermato quest’anno, che – in linea con lo storico recente – vede i repubblicani ottenere una decina di punti percentuali in più. Tra le donne laureate (il 16/17% della popolazione) i dem vincono largo, ma anche qui meno del 2018 e senza incrementi significativi della loro partecipazione elettorale
  3. Da dove arrivano questi voti democratici allora? Presumibilmente sono spalmati più uniformemente tra l’elettorato e vanno cercati con analisi più mirate del voto a livello statale (cosa che non ho il tempo ora di fare …). Se guardiamo al caso della Pennsylvania, ad esempio, scopriamo: che l’aborto ha pesato tantissimo; che il 62% dei votanti ritiene esso debba essere legale; che tra questi Fetterman ha vinto 76 a 22; che tra l’elettorato bianco ha perso bene (45/53) e (32/66) largo, ma meno che a livello nazionale, tra gli uomini bianchi senza laurea. Insomma, più che di significative variazioni in specifici segmenti elettorali si tratterebbe di oscillazioni generali limitate, ma potenzialmente decisive in un contesto rigidamente polarizzato
  4. L’elettorato maschile bianco con livelli d’istruzione bassi o medio-bassi rimane il nocciolo duro – durissimo – della base repubblicana. Costituisce, a volte lo dimentichiamo, circa un quinto dell’elettorato complessivo. E avrebbe votato 72 a 26 repubblicano (contro il 66-32 di quattro anni fa). Continua insomma a spostarsi verso i rep
  5. Così come tra gli ispanici sarebbero gli uomini – soprattutto quelli della fascia d’età 45-65 – a trainare uno spostamento dell’elettorato verso i repubblicani. Categoria artificiosa come poche, quella dell’ispanicità, che richiederebbe mille distinzioni geografiche, generazionali e dei paesi di provenienza. E che richiederebbe quindi analisi molto più mirate: i latinos, ad esempio, hanno votato come non mai per i repubblicani in Florida, ma meno rispetto al 2020 in tanti collegi del Texas. Di nuovo, usciranno analisi molto più dettagliate come è stato per il voto dei latinos nel 2020, Ma qui il dato interessante è il costante slittamento del voto ispanico verso i repubblicani: dal 69-29 a vantaggio dei dems del 2018 si sarebbe passato al 60-39 di quest’anno; e tra il voto maschile il cambiamento sarebbe stato particolarmente forte: da 63-34 a 53-45. Le spiegazioni sono tante – conservatorismo culturale e religiosa; guerre culturali e ostilità a wokenes; presa di un certo muscolare nazionalismo; sostegno a forze di polizia; ecc. ecc. – e il discorso con cui DeSantis ha celebrato la sua (straordinaria) vittoria in Florida ne ha sintetizzate tante. Nel contesto di una cattiva tornata elettorale per i repubblicani, questa è una delle poche note positive, anche perché mette in discussione quella possibile penetrazione democratica in pezzi della Sunbelt che molti preconizzavano.
  6. Centrale è infine la “education divide” – il gap nelle scelte di voto tra laureati e non-laureati. Tanto per intenderci; gli uomini bianchi laureati votano 52-45 per i repubblicani; quelli non laureati, si diceva, 72-26 rep. Tra le donne bianche si passerebbe addirittura da 61-37 per i rep (non laureate) a 56 – 42 per i dem (laureate). I bianchi, uomini e donne, non laureati sono il 40% del totale degli elettori.

Di Mario Del Pero

Professore di Storia Internazionale e di Storia degli Stati Uniti all'Institut d'études politiques - SciencesPo di Parigi

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