Nemici per la pelle. Il vertice Xi-Biden e l’interdipendenza sino statunitense

Nessun comunicato congiunto è uscito da questo lungo (3 ore) summit tra Xi Jinping e Joe Biden, il primo di persona da quando Biden è alla Casa Bianca, anche se i due si conoscono da tempo e nell’ultimo biennio si sono confrontati a distanza in più occasioni. Le dichiarazioni dei due presidenti sono state amichevoli ma di circostanza. Improntate alla necessità di comunicare l’interesse condiviso a contenere le tensioni o, come ha detto Biden, a evitare che “la competizione si trasformi in conflitto”.

Ed è questa in realtà la grande questione oggi: se vi possa appunto essere competizione senza conflitto; rivalità su alcuni dossier e cooperazione su altri. La relazione, e la profonda interdipendenza, tra Cina e Stati Uniti è stata centro e in parte motore dei processi d’integrazione globale dell’ultimo mezzo secolo. Col tempo, e soprattutto dopo la crisi del 2008, la dimensione antagonistica e competitiva è parsa però progressivamente prevalere su quella collaborativa. Sotto la leadership di Xi, la Cina ha promosso una politica estera più assertiva e muscolare, nella quale evidente è parso il tentativo di mettere in asse la nuova potenza economica (e, in parte, militare) del paese con la proiezione della sua influenza internazionale, soprattutto nell’Indo-Pacifico. Dal canto loro gli Usa – sia con Trump sia con Biden – hanno abbandonato la logica dell’apertura e dell’integrazione per assumere una posizione vieppiù ostile nei confronti di Pechino. Le ultime due dottrine di sicurezza nazionale statunitense del dicembre 2017 e dell’ottobre 2022 hanno esplicitato chiaramente questo nuovo approccio, presentando la Cina come il vero avversario sistemico di Washington: l’unico, afferma il documento prodotto poche settimane fa dall’amministrazione Biden, che ha “sia l’intenzione di rimodellare l’ordine internazionale sia le capacità economiche, militari, diplomatiche e tecnologiche per farlo”.

A questa profonda revisione dottrinale sono conseguiti da parte statunitense precisi atti politici finalizzati a promuovere un robusto contenimento della Cina, regionale e globale, e un contestuale disaccoppiamento dell’economia degli Usa e dei loro alleati da quella cinese. Si è rafforzata tanto la presenza militare quanto la rete di alleanze degli Usa nell’Asia-Pacifico; è stata promossa una selettiva guerra commerciale finalizzata a ridurre il deficit bilaterale degli Usa; in tanti accordi commerciali che gli Usa hanno sono state incluse delle precise clausole anticinesi; sono stati introdotti meccanismi più severi di monitoraggio degli investimenti diretti cinesi; negli ultimi mesi sono state adottati provvedimenti miranti a bloccare il trasferimento di tecnologia sensibile verso la Cina. Persino in ambito culturale ed educativo abbiamo assistito a una significativa contrazione di dinamiche in atto da tempo, con la riduzione del numero di studenti cinesi nelle università americane, la chiusura di tanti centri Confucio negli Usa e la sospensione di numerosi programmi di scambio tra i due paesi.

Vi è stata insomma negli ultimi anni un’escalation della competizione sino-statunitense, avallata anche da un clima politico che nei due paesi spingeva in tal senso, con la svolta radicalmente nazionalista di Xi e un’opinione pubblica americana mai così ostile alla Cina. Può questa competizione non divenire conflitto? Le misure adottate da una parte come dall’altra sono praticabili e gestibili senza provocare escalation? Ed è immaginabile che in questo quadro competitivo le due grandi potenze d’oggi continuino invece a cooperare su dossier cruciali per la governance globale, a partire ovviamente dal cambiamento climatico?

Offrire una risposta è impossibile. A dispetto di tutto, l’interdipendenza rimane profonda e nel 2022 gli Usa avranno con la Cina il loro più ampio deficit commerciale di sempre. Una coerente azione di contenimento di Pechino rende vitali, per gli Stati Uniti, alleati che sono invece riottosi a seguirli sulla strada del disaccoppiamento economico, come la Germania ha fatto chiaro solo pochi giorni fa. Potenti interessi imprenditoriali e finanziari, dentro e fuori gli Usa, spingono per evitare che l’antagonismo vada fuori controllo. Di tutto Pechino ha bisogno oggi fuori che di un’ulteriore destabilizzazione dell’ordine internazionale, come il suo atteggiamento cauto e responsabile rispetto all’Ucraina ha ben evidenziato. E però ci si muove su di un crinale sottile e pericoloso. E per questo è fondamentale che, come ieri, le due parti tengano sempre aperta una comunicazione diretta e franca tra i loro leader.

Il Giornale di Brescia, 15 novembre 2022

Di Mario Del Pero

Professore di Storia Internazionale e di Storia degli Stati Uniti all'Institut d'études politiques - SciencesPo di Parigi

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