Non vi è stata – e lo si sapeva – nessuna conferenza stampa o dichiarazione congiunta. Ma le parole che hanno anticipato e seguito questo primo vertice in presenza, a margine del G20 di Bali, tra i presidenti di Cina e Stati Uniti, Xi Jinping e Joe Biden, sono di per sé emblematiche. L’obiettivo, ha sottolineato Biden, è «evitare che la competizione» degeneri in «conflitto»: trovare insomma un modo per gestire la rivalità, lasciando che essa si dispieghi su alcuni dossier senza che vada fuori controllo o impedisca la cooperazione su temi invece vitali, a partire ovviamente dal cambiamento climatico. Ma è davvero possibile? Può esistere una competizione regolamentata e pacifica, laddove esistono pesanti questioni irrisolte, Taiwan su tutte? E quali concessioni sono disposte a fare le due parti – quanto sono cioè disposte a sacrificare in termini di ambizioni e privilegi di potenza – per evitare un’escalation?
A oggi è impossibile rispondere in modo univoco o prevedere un futuro che si prospetta quantomai incerto. Si possono porre invece alcune domande che di fatto evidenziano le tante opacità, e finanche i cortocircuiti, di questa interdipendenza antagonistica tra le due grandi potenze dell’ordine mondiale corrente. La prima rimanda appunto alla possibilità che vi sia competizione senza conflitto, rivalità senza scontro. Che vi possa essere una sorta di «coesistenza pacifica», per usare una categoria della guerra fredda utilizzata alla fine degli anni Cinquanta dall’allora leader sovietico Nikita Chruščëv. Cosa possibile, certo, che in una certa misura sta già avvenendo. E però questa competizione si svolge in un contesto radicalmente diverso da quello di 60 anni fa: con un campo da gioco e con delle regole completamente mutati. La coesistenza pacifica e competitiva si dispiega cioè entro una situazione di profonda integrazione globale e tra le due parti. E quindi gli strumenti adottati per competere hanno oggi riverberi per lo più rilevanti e diffusi, sia per i contendenti sia per il resto del mondo. Se gli USA, come hanno fatto nell’ultimo anno, adottano severi meccanismi restrittivi sul trasferimento di tecnologia sensibile alla Cina, quest’ultima vede grandemente impedito il suo obiettivo di raggiungere un’autosufficienza tecnologica in larga misura propedeutica ai suoi disegni di potenza e può reagire rendendo meno accessibili quelle materie rare a loro volta centrali per l’economia mondiale. Se gli USA cercano di disaccoppiare l’economia propria e dei propri alleati da quella cinese, riducendo la presenza di quest’ultima nelle catene globali di produzione, gli effetti sono forti anche per Paesi terzi, come evidenziano bene le attuali resistenze della Germania a seguire Washington su questa strada. E tanti altri esempi possono essere fatti. In sintesi, la profonda interdipedenza sino-statunitense che è stata centro e, spesso, motore di tante dinamiche d’integrazione globale dell’ultimo mezzo secolo tende naturalmente a diffondere gli effetti della competizione: a impedirne il contenimento entro un ambito specifico che garantisca il loro isolamento, evitando in ultimo un domino che avvicina il rischio dell’escalation.
E questo ci porta alla seconda grande questione: si può competere su alcuni dossier e collaborare su altri, dicono gli USA e, anche, molti loro alleati europei. Una linea, questa, affermata nell’ultima National Security Strategy (NSS) di Biden così come in alcuni importanti documenti recenti che definiscono la dottrina di sicurezza della UE e nei quali, con un certo equilibrismo retorico, la Cina viene descritta ad esempio come un «partner negoziale […] un competitore […] e un rivale sistemico». Si può però immaginare una serrata competizione di potenza in diversi ambiti senza che ognuna delle parti usi tutti gli strumenti a sua disposizione? Nella quale questi ambiti possono essere gestiti discretamente e a compartimenti stagni? Possiamo credere – per fare un banale esempio di scuola – che la Cina continui a dare un contributo alla governance globale laddove fosse progressivamente esclusa da spazi d’integrazione commerciale o finanziaria, come gli USA vorrebbero? Il linkage – il collegare e rendere interdipendenti dossier distinti in funzione dei propri obiettivi di politica estera – è strumento classico, verrebbe voglia di dire inevitabile, delle relazioni internazionali. È difficile che la Cina, come chiunque altro, se ne voglia privare laddove fosse messa in un angolo.
Ma è davvero possibile mettere oggi Pechino in un angolo? È questa la terza e ultima questione da porsi. Il deterioramento della relazione sino-statunitense è in larga misura il portato di una più generale difficoltà della globalizzazione le cui radici affondano nella crisi del 2008 e in quel che ne è seguito. Le manifestazioni sono state plurime e si sono intrecciate con l’adozione, da parte di Xi, di un muscolare nazionalismo e il crescere, negli USA, di una forte ostilità bipartisan verso la Cina e della sollecitazione conseguente a promuovere un robusto contenimento delle ambizioni cinesi. Pur con un lessico radicalmente diverso, le dottrine di sicurezza nazionale di Trump e Biden presentano diverse assonanze su questo punto (e marcano invece una forte lontananza da quelle di George Bush Jr. e di Obama). Così come non così lontane sono le politiche adottate. Biden ha confermato molte delle tariffe imposte da Trump; i democratici sostengono la logica di accordi commerciali, come l’ultimo con Messico e Canada (USMCA), nei quali sono presenti clausole dirette esplicitamente a ridurre la presenza della Cina nelle catene di produzione del prodotto che, finito, circola nello spazio nordamericano; i controlli sugli investimenti diretti cinesi si sono fatti molto più stringenti; persino in ambito culturale ed educativo, la competizione con la Cina ha prodotto effetti rilevanti, con la riduzione del numero di studenti cinesi nelle università americane, la chiusura di molti istituti Confucio negli USA e la sospensione di numerosi programmi di scambio tra i due Paesi. Nonostante tutto questo, però, nel 2022 il deficit commerciale degli USA con la Cina sarà quasi sicuramente il più alto di sempre; molti alleati di Washington nicchiano a seguire gli Stati Uniti o addirittura corteggiano Pechino; e forti interessi imprenditoriali e finanziari, dentro e fuori gli USA, spingono per attenuare la competizione o evitare che essa vada fuori controllo. La guerra in Ucraina, infine, ha mostrato ad ambo le parti quali siano gli effetti di una destabilizzazione globale e di dinamiche di frammentazione che incidono su crescita, inflazione e accesso alle materie prime, colpendo tutti gli attori del sistema internazionale.
Non sappiamo, insomma, se possa davvero esservi una competizione pacifica e non conflittuale tra Cina e Stati Uniti. Sappiamo però che mantenere canali di comunicazione diretti e immediati rimane vitale, come proprio la storia della guerra fredda ci ricorda, a partire da quella crisi dei missili cubani il cui sessantennale abbiamo da poco ricordato. E proprio per questo, anche senza comunicati congiunti o impegni concreti, è importante vi siano (e continuino a esservi) vertici come quello di ieri a Bali.
apparso il 15.11.2022 su Treccani-Atlante (https://www.treccani.it/magazine/atlante/geopolitica/Competizione_senza_conflitto.html)