Con un discorso tipicamente sconclusionato e distopico, costruito attorno a una rappresentazione apocalittica della crisi nella quale gli Usa sarebbero precipitati a causa dell’elezione di Joe Biden, Trump ha annunciato la sua candidatura alle Presidenziali del 2024. In largo anticipo rispetto alla tradizione, senza poter contare su una squadra che lo accompagnerà nella campagna, contro il parere di consiglieri e politici a lui vicini e nonostante il pessimo risultato delle midterm, l’ex Presidente ha deciso comunque di bruciare i tempi. Può darsi che l’obiettivo primo sia di contenere (o far congelare) le tante indagini che pendono sul suo conto, da quella della procura di Fulton Country in Georgia sul tentativo, patentemente eversivo, di far modificare il risultato elettorale a quella sui documenti federali illegalmente custoditi nella sua residenza di Mar-a-Lago. O forse vi è davvero un calcolo politico legato alla volontà di dettare i tempi della lunga campagna che sceglierà il candidato repubblicano, rubando immediatamente i riflettori a chi dal voto è uscito invece rafforzato come il governatore della Florida Ron De Santis, e ad altri potenziali aspiranti, su tutti i governatori di Ohio e Virginia, Mike DeWine e Glenn Younkin.
Da più parti sono state correttamente sottolineate le tante debolezze di Trump. Stiamo parlando del primo Presidente non rieletto a un secondo mandato da Bush Sr. nel 1992; che ha perso midterm (2018), presidenziali (2020) e primo midterm post-presidenza (2022): impresa riuscita nell’ultimo secolo solo a Herbert Hoover, il Presidente repubblicano dal 1929 al 1933. Trump porta con sé quattro anni di pesanti strappi istituzionali, due impeachment (caso unico nella storia), un tentato golpe per rimanere alla Casa Bianca, un assalto al Congresso dei suoi sostenitori. Trump primeggia in tutte le categorie d’impopolarità presidenziale: al 41%, la media del tasso di approvazione del suo operato durante i 4 anni trascorsi alla Casa Bianca sta 4/5 punti sotto quella degli altri presidenti meno apprezzati dagli anni Trenta a oggi, Harry Truman (1945-1953) e Jimmy Carter (1977-1981). In un quadro polarizzato e a bassissima mobilità elettorale, dove il traino che porta a votare è primariamente negativo, Trump rappresenta il principale agente di mobilitazione dell’elettorato avverso: la variabile che induce tanti democratici disillusi e inclini all’astensionismo a recarsi comunque alle urne, come ha confermato anche il voto di questo ultimo midterm.
E però sarebbe avventato sottovalutare la forza e il possibile impatto di questa candidatura, rispetto sia alle primarie repubblicane sia alle presidenziali. Da un lato c’è il suo evidente potenziale distruttivo. Trump ha già iniziato ad attaccare, se non insultare, DeSantis. Difficile non prevedere una campagna ancor più brutale di quella del 2016, quando sotto gli strali di Trump finirono soprattutto Jeb Bush e Marco Rubio; e difficile, anche, che Trump possa accettare un’eventuale sconfitta e, nel caso, non considerare la possibilità di lanciare una candidatura terza.
Nulla però esclude la sua conquista della nomination. Il tasso di popolarità di Trump tra l’elettorato repubblicano continua a superare l’80%. La capacità della leadership del partito di bloccarne l’ascesa si è rivelata in più occasioni assai flebile, come abbiamo visto anche dopo il 6 gennaio 2021 quando per timore di una vasta mobilitazione della base, i vertici repubblicani al Congresso decisero di non votare l’impeachment. Già nel 2016 ha dimostrato la sua capacità di condurre delle campagne elettorali che rompono schemi e certezze all’apparenza inscalfibili, correndo (e vincendo) senza un’ampia infrastruttura sul territorio o l’appoggio di media importanti. Se è vero che ha perso nel 2020, è altresì vero che ha lo hanno votato quasi 75milioni di elettori e che anche grazie a quella mobilitazione i repubblicani hanno ottenuto un ottimo risultato al Congresso e in tante elezioni statali. Senza considerare l’impatto decisivo della pandemia, senza la quale – mostrano oggi varie ricerche – Trump sarebbe stato probabilmente rieletto. Insomma, Trump è un candidato con mille fragilità oltre che una figura divisiva e altamente tossica per la democrazia statunitense, ma è decisamente prematuro decretarne l’irrilevanza politica o la sconfitta certa.
Il Giornale di Brescia, 17 novembre 2022