È stato un discorso in perfetto stile Joe Biden quello annuale sullo Stato dell’Unione. Un discorso semplice, finanche colloquiale e in ultimo ottimista: sullo Stato dell’Unione, appunto; e sulla possibilità di completare l’opera intrapresa in questi due anni di amministrazione, continuando laddove possibile a cercare quella collaborazione bipartisan che nell’ultimo anno ha permesso di ottenere alcuni importanti successi legislativi.
Tre elementi del discorso meritano di essere sottolineati. Il primo è quello elettorale. Biden, lo si sapeva, è fermamente intenzionato a ricandidarsi nel 2024, a dispetto dell’età avanzata e di una fatica fisica e intellettuale spesso visibile in questi primi due anni di Presidenza. Biden ha in una certa misura usato il pulpito dello Stato dell’Unione per lanciare questa sua candidatura, sulla quale pare essere perplessa anche una maggioranza di elettori democratici. Ha cercato di trasmettere vigore ed energia; ha reagito con efficace sarcasmo agli sconcertanti insulti e urla di alcuni avversari repubblicani. Ha avanzato proposte politiche – dalle armi ai costi dei biglietti dei concerti – su questioni molto specifiche e mirate, sulle quali sembra concordare una maggioranza di americani a prescindere dal loro schieramento.
E quello politico è il secondo elemento del discorso di Biden. Il Presidente ha ribadito la sua fiducia nella possibilità di collaborare con gli avversari nel raggiungere i compromessi necessari a governare e legiferare. Ha riproposto cioè la sua classica retorica sulla necessità di superare divisioni e partigianerie in nome di un bene superiore e dell’unità nazionale. E però non ha mancato di esporre la radicalità dei repubblicani su alcuni temi fondamentali, come la difesa della sanità pubblica per gli anziani (Medicare) e del sistema pensionistico (Social Security). Il calcolo, qui, è evidente e in una certa misura cinico. Da un lato si spera di poter catturare, nel 2024 come fu nel 2020, un pezzo di elettorato moderato o finanche conservatore spaventato dalla deriva estremista di pezzi del partito repubblicano e dalla persistente influenza dell’ex Presidente Donald Trump. Dall’altro si auspica di poter acuire, e cavalcare, le divisioni presenti tra i repubblicani, magari per poter ottenere su alcuni provvedimenti i voti di quei quattro, cinque deputati necessari per rovesciare l’esile maggioranza alla Camera dei Rappresentanti.
Il terzo e ultimo elemento è quello che interessa di più noi europei e riguarda l’economia. Una volta ancora, Biden ha parlato il linguaggio di un populismo economico che piace a tanti, a destra come a sinistra. Ha rivendicato le politiche adottate per riportare la produzione industriale negli Usa, quel protezionismo incapsulato nello slogan del “Buy American” (“compra americano”) che – ha detto – “è la legge del paese dal 1933” ma “per troppo tempo è stata aggirata dalle amministrazioni passate”. Politiche, queste, finalizzate a rendere gli Usa autosufficienti in settori chiave del manifatturiero, a facilitare il disaccoppiamento della loro economia da quella cinese e ad accelerare la transizione ecologica. Ma politiche che violano probabilmente le norme sul commercio internazionale e danneggiano le imprese europee che hanno ancor oggi nel mercato statunitense un importantissimo sbocco. A volte dimentichiamo, infatti, quanto integrato sia lo spazio economico transatlantico e rilevanti le esportazioni europee verso gli Usa (dopo la Germania, e più o meno allo stesso livello della Francia, gli Usa sono ad esempio il principale importatore di beni italiani). Gli “alleati” sono stati menzionati, en passant, non più di un paio di volte nel discorso; all’Europa si è fatto cenno solo per celebrare l’impegno bipartisan – repubblicano e democratico – a “difenderla” e “renderla più forte e sicura”. E come rendere compatibile questa nuova politica statunitense con le relazioni con i partner europei è, oggi, una delle grandi e complesse sfide che si pongono di fronte a Usa ed Europa.
Il Giornale di Brescia, 9 febbraio 2023