La Corte Penale Internazionale (CPI) ha emesso un mandato d’arresto per Vladimir Putin e per Maria Lvova-Belova, il commissario russo per i diritti dell’infanzia. L’accusa – pesantissima, ma ampiamente documentata – riguarda il rapimento e il trasferimento in Russia di centinaia se non migliaia di bambini e adolescenti ucraini. Un pezzo terribile, invero osceno, della aggressione russa dell’Ucraina che la CPI vorrebbe finalmente sanzionare. Esultano le organizzazioni per i diritti umani. Dopo anni difficili, la CPI sembra tornare finalmente al centro della scena. L’importanza simbolica di questa decisione non va sottostimata in quanto mette sotto i riflettori i possibili crimini di guerra commessi da Mosca.
È però quasi certo che l’indagine non si svilupperà oltre questa sua fase iniziale. Che per Putin non vi sarà conseguenza alcuna, a parte il fastidio di vedere i suoi movimenti ulteriormente limitati dall’impossibilità teorica di recarsi nei paesi che hanno accettato la giurisdizione della CPI e che sarebbero costretti a ottemperare al mandato di arresto. Le ragioni sono facili da elencare. Da un lato, la Russia non fa parte della CPI. Firmò lo Statuto di Roma che istituiva il Tribunale, ma non lo ratificò mai e ritirò la firma nel 2016 dopo che la CPI aveva promulgato una sentenza che definiva come “occupazione” l’annessione russa della Crimea di due anni prima. Dall’altro, il Tribunale è stato fortemente indebolito negli anni e la sua missione patentemente contestata. È cambiato il clima politico e culturale, e la grande era dei diritti umani e dell’interventismo umanitario degli anni Novanta – che tanto aveva contribuito alla gestazione della CPI – ha lasciato spazio a una progressiva disillusione nei confronti della possibilità di sanzionare i crimini di guerra e contro l’umanità. Una delegittimazione, quella della CPI, cui hanno contribuito gli standard doppi e selettivi nell’applicazione delle sue regole, evidenziati anche dal fatto che la quasi totalità delle sue indagini hanno avuto per oggetto paesi africani.
Più di tutto, però, ha inciso l’attivo boicottaggio del Tribunale da parte degli Stati Uniti. L’egemone dell’ordine globale post-Guerra Fredda che solo avrebbe potuto dare la necessaria forza politica e operativa alla CPI. Un egemone anche su questo incapace di fare egemonia: dolosamente responsabile nel minare alcuni pilastri del diritto internazionale e del sistema che sul primato e l’applicazione di esso dovrebbe in ultimo poggiare. Clinton firmò lo Statuto di Roma solo in scadenza di mandato, dopo la vittoria di Bush Jr alle presidenziali del 2000. Uno dei primi atti del suo successore fu di ritirare la firma. La CPI nacque senza gli Usa, uno dei sette non firmatari (gli altri erano Cina, Iraq, Israele, Libia, Qatar e Yemen). E per quanto Washington avrebbe in taluni casi collaborato con le indagini del Tribunale, l’ostilità rimase forte soprattutto negli ambienti più conservatori, ostili a qualsiasi possibile limitazione della sovranità statunitense in nome del diritto internazionale. Un’avversione, questa, culminata nella decisione eclatante (e sconcertante) di Trump di emettere un ordine esecutivo nel giugno 2020 che sanzionava la procuratrice capo della CPI, Fatou Bensouda, congelando i conti bancari suoi e dei suoi familiari, perché quest’ultima voleva aprire un’inchiesta sui crimini di guerra in Afghanistan che avrebbe potuto coinvolgere anche alcuni soldati statunitensi.
Doppi standard e ipocrisie, questi, che hanno contribuito ad alimentare il vittimismo di cui si è nutrito e continua a nutrirsi il nazionalismo radicale e violento di Vladimir Putin.
Il Giornale di Brescia, 18 marzo 2023